Anni e anni di battaglie sui diritti non sono ancora riusciti a debellare il fenomeno della violenza di genere, che continua a emergere nella società in cui viviamo, figlio di stereotipi profondamente radicati in un impianto socio/culturale ancora troppo “patriarcale”. E’ in questa realtà che si muove, per fortuna, la Cooperativa Sociale E.V.A., fondata da Lella Palladino, che tra le altre cose coordina e gestisce l’attività di cinque centri antiviolenza dislocati in Campania.
- Lei è socia e fondatrice della Cooperativa E.V.A., un’organizzazione di donne attive nelle politiche di genere che gestisce in Campania, tra le altre cose, 5 centri antiviolenza. Ci racconta nel dettaglio quali sono le funzioni di un centro?
Un centro antiviolenza articola i suoi interventi in funzione di un duplice obiettivo: accompagnare le donne che accoglie fuori da una situazione di violenza attraverso un percorso di recupero di libertà ed indipendenza e cambiare radicalmente la cultura dalla quale la violenza trae origine e si riproduce a partire dal territorio in cui opera.
- Come funziona il percorso di assistenza? Si parte da un numero verde come primo contatto?
Preferiamo non definirlo percorso di assistenza ma di sostegno. Il primo contatto spesso parte dal 1522 ma le donne arrivano anche su altri invii, dalla rete territoriale, dai social dai media. Dopo una prima accoglienza telefonica alla donna viene offerta la possibilità di fissare un appuntamento al centro per una serie di colloqui attraverso i quali, sempre a partire dalla sua volontà e dai suoi desideri potrà costruire il suo percorso personale di uscita dalla condizione di difficoltà.
- Quali sono le strategie che vengono adottate durante il primo colloquio e cosa emerge principalmente dal primo contatto con la vittima?
Dal primo colloquio, utilizzando un approccio empatico e mai giudicante, si ascolta il racconto della donna, le si dà credito, spiegandole che quello che sta raccontando accade a tante altre donne, e il dolore che prova è comprensibilissimo, perché la violenza ha radici culturali profonde ed è fondata sulla discriminazione di genere, sulla volontà di dominio, controllo e possesso degli uomini e non in alcun modo è ascrivibile alla sua inadeguatezza. Non è colpa sua o sua responsabilità. Si cerca quindi di risignificare la violenza vissuta riportandola ad un problema collettivo piuttosto che alla sua storia individuale e questo passaggio è indispensabile perchè la donna possa sentirsi compresa e, finalmente, accolta. Dal primo contatto, ancor prima che la consapevolezza possa farsi spazio nel dolore, emerge solo una parte della violenza, quella più facilmente percepita. Sarà solo durante il percorso che la donna si renderà conto di quello che è stata in grado di sopportare e riuscirà a dare un nome agli abusi subìti, in particolare alla violenza sessuale.
- Che tipo di percorso di assistenza (accoglienza? Assistenza legale oltre che psicologica?) fornite alle donne che si rivolgono al vostro centro?
Le donne trovano nei nostri centri un complesso di offerte, ascolto, accoglienza, protezione in casa rifugio per sé stesse ed i propri figli e figlie minori, se la situazione è particolarmente pericolosa; consulenza legale e accompagnamento nel complesso iter giudiziario sia civile che penale, sostegno psicologico individuale, gruppi di auto aiuto, sostegno alla genitorialità, orientamento al lavoro e supporto all’autonomia economica ed alloggiativa. Il valore aggiunto sta nella nostra metodologia, fondata sulla relazione tra donne e sull’adozione di un’ottica di genere.
- In base alla sua esperienza, in che modo e misura influisce l’aspetto culturale sul fenomeno della violenza di genere?
La violenza di genere è profondamente radicata nella cultura in quanto fenomeno trasversale e strutturale e le interrelazioni tra cultura e violenza sono molteplici, perché la nostra società è ancora molto sessista e condizionata da un impianto patriarcale. I tanti stereotipi e pregiudizi che condizionano la vita di uomini e di donne legittimano la discriminazione e la violenza e rendono difficile il cambiamento sia individuale che collettivo. Del resto abbiamo un impianto normativo adeguato a contrastare la violenza ma le norme a partire dalla Convenzione di Instanbul trovano difficile applicazione perché la platea degli attori istituzionali non è adeguatamente formata.
- Non lo ripetiamo mai abbastanza, per le donne vittime di violenza è fondamentale denunciare. Spesso, per diversi fattori (senso di vergogna, poca fiducia nelle istituzioni) questo purtroppo non accade. Cosa si può dire in questi casi per convincere le donne a chiedere aiuto?
Ecco, bisogna dire alle donne di chiedere aiuto e di farlo nei luoghi deputati a raccogliere la richiesta di aiuto con competenza, offrendo protezione alla donna e rendendola consapevole in piena autodeterminazione delle scelte che deve compiere prima ancora della denuncia. Questa deve avvenire quando la donna ha intorno una rete di protezione e può fidarsi delle istituzioni, che non sempre sente come alleate. Del resto, sappiamo quanto la vittimizzazione secondaria sia in agguato e le donne, se sono anche madri, temono spesso a ragione le accuse di incompetenze genitoriali e vedono concreto il rischio di un allontanamento dei figli.
- La violenza, lo sappiamo bene può assumere diverse forme, e quella psicologica lascia segni meno evidenti all’esterno ma profondi e dolorosi quanto quelli fisici, non solo in chi la subisce in prima persona. Quale comportamento assumere se ci si interfaccia con una donna vittima di violenza? Quali sono i giusti consigli da darle?
Bisogna evitare di sollecitare in lei decisioni che ancora non ha maturato come quella di denunciare il compagno, di chiedere la separazione, di allontanarsi di casa. Quello che conta è dirle che non è sola, che può chiedere aiuto e può farlo in completa segretezza ed anonimato rivolgendosi al centro antiviolenza specializzato da individuare attraverso il 1522.
- Negli ultimi anni avete registrato una crescita del fenomeno della violenza sulle donne?
La violenza ha un trend costante e solo nell’ultimo periodo possiamo parlare di un lieve incremento dei casi. Cresce di certo l’efferatezza e la parte peggiore della violenza. In compenso, le giovani donne hanno la capacità di uscire prima da una relazione violenta. Siamo messe ancora molto male.
- Il 25 novembre ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Che cosa significa per lei questa giornata? La cooperativa ha programmato una campagna specifica per questa ricorrenza?
Quest’anno più che mai abbiamo una serie di impegni che ci vedono attive nei diversi territori dove operiamo tra eventi di sensibilizzazione, molti nelle scuole con i ragazzi protagonisti ed altri in rete con enti locali. Saremo in piazza con la Questura e con una nostra mostra itinerante di foto prodotte dai ragazzi che seguiamo in un nostro servizio di contrasto alla povertà educativa, che ritraggono le donne dei nostri laboratori di inserimento lavorativo e a sostegno dell’autonomia economica. Il 25 sera saremo in teatro con uno spettacolo “Le funambule, donne tra la vita e l’amore” ed il 26 tutte a Roma per la grande manifestazione nazionale.
- In che modo secondo lei le istituzioni possono offrire un contributo concreto per promuovere una cultura di parità di genere?
Di sicuro valorizzando il ruolo dei centri antiviolenza, promuovendo fin dall’infanzia un’educazione priva di stereotipi che sappia dare risalto alla soggettività delle donne e riscrivere la storia di ognuna di loro in tutti gli ambiti senza oscurarne il contributo, sostenendo l’occupazione delle donne attivamente e rinforzando un sistema di welfare che ponga fine al dono involontario delle proprie ore di vita per compiti di cura che andrebbe più equamente distribuiti. La strada è ancora lunga ma è necessario continuare a percorrerla.