E’ colpa dei manager, non dei dipendenti
di Alessia Casonato
Ogni dipendente, ogni giorno lavorativo, prende una decisione: è disposto a svolgere solo il lavoro minimo necessario per mantenere il proprio posto di lavoro? O è disposto a mettere più energia ed impegno nel proprio lavoro?
Ultimamente si parla molto di persone che si definiscono “quiet quitters”. Questi lavoratori rifiutano l’idea che il lavoro debba essere al centro della loro vita. Evitano di dare il massimo e non fanno straordinari. Dicono “no” alle richieste di andare oltre ciò che pensano ci si dovrebbe aspettare da una persona nella loro posizione.
In realtà, Quiet quitting è un nuovo nome per un vecchio comportamento. Jack Zenger e Joseph Folkman, rispettivamente CEO e presidente della Zenger/Folkman, azienda di consulenza per lo sviluppo della leadership aziendale, hanno condotto per decenni valutazioni della leadership a 360 gradi, hanno chiesto regolarmente alle persone di valutare se il loro “ambiente di lavoro fosse un luogo in cui i lavoratori volessero esprimersi al meglio”.
Per comprendere meglio l’attuale fenomeno del Quiet Quitting, i due hanno esaminato i dati per cercare di rispondere a questa domanda: cosa è che fa la differenza per coloro che vedono il lavoro come una prigione diurna ed altri che invece ritengono che dia loro significato e scopo?
I loro dati indicano che il Quiet Quitting di solito non riguarda la volontà di rinunciare a lavorare di più e in modo più creativo, ma riguarda molto di più la capacità di un manager di costruire una relazione con i propri dipendenti.
Zenger e Filkman hanno esaminato dati raccolti a partire dal 2020 su 2.801 people manager, che sono stati valutati da 13.048 dipendenti diretti. In media, ogni manager è stato valutato da cinque diretti riporti e sono stati confrontanti due punti fondamentali:
• I riporti hanno valutato la capacità del proprio manager di “bilanciare il raggiungimento dei risultati con i bisogni degli altri”.
• I dipendenti hanno valutato se il loro “ambiente di lavoro fosse un luogo in cui le persone fossero disposte a dare qualcosa in più”.
Il termine assegnato all’atteggiamento di coloro che sono disposti a fare uno sforzo extra è “impegno volontario”. Il suo effetto sulle organizzazioni può essere molto impattante: se si dispone di 10 dipendenti diretti e ciascuno di essi offre il 10% di impegno volontario, i risultati netti di tale sforzo aggiuntivo sono una maggiore produttività equivalente al lavoro di un dipendente full time.
Si è quindi scoperto che i manager che non sanno bilanciare i risultati con i bisogni delle persone hanno da tre a quattro volte più persone che rientrano nella categoria “quiet quitters” rispetto ai leader più efficaci. Questi manager hanno una quota del 14% di quiet quitter fra i loro subalterni e solo il 20% era disposto a fare uno sforzo extra. Ma coloro che sono stati valutati meglio nel bilanciare i risultati con le relazioni personali hanno visto il 62% dei loro dipendenti diretti disposti a fare uno sforzo extra, mentre solo il 3% erano dei quiet quitter.
Molte persone, a un certo punto della loro carriera, hanno lavorato per un manager che le ha spinte verso il Quiet Quitting. Questo deriva dal sentirsi sottovalutati e mai apprezzati. È possibile che i people manager fossero di parte o che avessero tenuto comportamenti inappropriati dentro o fuori il posto di lavoro. La mancanza di motivazione dei dipendenti è stata quindi una reazione diretta alle azioni del manager.
La maggior parte dei dipendenti durante la propria carriera ha anche lavorato per un leader che li ispirava e che generava in loro un forte desiderio di fare tutto il possibile per raggiungere gli obiettivi. Di tanto in tanto lavorare fino a tardi o iniziare la mattina presto non è stato un peso, perché questo manager li ha ispirati a dare il meglio.
Supponiamo di avere più dipendenti che piano piano stiano scivolando nel Quiet Quitting. In tal caso, un’ottima domanda da porsi dovrebbe essere: “questo è un problema legato ai miei riporti o è un problema legato a me e le mie capacità di leadership?”
Se uno è fiducioso delle proprie capacità di leadership e solo uno dei propri dipendenti diretti mancasse di motivazione, potrebbe non essere colpa sua. Il 3% o il 4% dei migliori manager potrebbe comunque avere dei riporti che potrebbero diventare dei quiet quitter.
Quello che è importante, quando si chiede al proprio team una maggiore produttività, è fare di tutto per assicurarsi che i membri del team si sentano apprezzati. E’ fondamentale un dialogo aperto e onesto con i colleghi sulle aspettative che ciascuna parte ha dell’altra.
La fiducia quindi è il fattore chiave. Quando sono stati analizzati i dati di oltre 113.000 leader per trovare il comportamento migliore che aiutasse i manager a bilanciare i risultati con i bisogni del team, il comportamento applicato con maggior successo è stata la fiducia. Quando i dipendenti si fidavano del loro manager, davano per scontato che questo includesse anche il prendersi cura di loro e del proprio benessere.
La ricerca di Zenger e Folkman ha collegato la fiducia a tre comportamenti:
il primo è quello di coltivare relazioni positive con tutti i membri del team. Ciò significa che in quanto manager, non vedi l’ora di connetterti e divertirti a parlare con tutti loro. Gli interessi comuni vi legano, mentre le differenze di opinione sono stimolanti. Alcuni membri del team rendono facile avere una relazione positiva, altri sono più impegnativi. Questo è spesso il risultato di differenze (età, sesso o orientamento politico) e bisogna cercare un terreno comune con i membri del team per creare fiducia reciproca.
Il secondo elemento generato dalla fiducia è la coerenza. Oltre ad essere totalmente onesti, i leader devono mantenere ciò che promettono.
Il terzo elemento che crea fiducia è la competenza. Il manager conosce bene il proprio lavoro? Oppure non è aggiornato su qualche aspetto tecnico? Gli altri si fidano delle sue opinioni e consigli? Gli esperti possono offrire chiarimenti, un percorso da seguire e una visione chiara per creare fiducia nel dipartimento.
Costruendo un rapporto di fiducia con tutti i dipendenti, la possibilità di diventare quiet quitter si dissipa in modo significativo. L’approccio adottato dai leader per ottenere risultati dai dipendenti in passato non è lo stesso approccio che utilizziamo oggi: adesso stiamo costruendo luoghi di lavoro più sicuri, più inclusivi e positivi e bisogna continuare a migliorare l’ambiente lavorativo.
È facile attribuire la colpa del Quiet Quitting a lavoratori pigri o demotivati: questa ricerca ci esorta a guardarci dentro e riconoscere che le persone vogliono dare la loro energia, creatività, tempo ed entusiasmo alle organizzazioni e ai leader che se lo meritano.